Hélène Binet
Le sue immagini sono una risposta al potenziale dinamico ed espressivo dell'architettura
Hélène Binet è una delle più importanti fotografe d’architettura al mondo. Nonostante si sia accostata a questa disciplina quasi per caso, il suo lavoro ha letteralmente plasmato sia l’evoluzione della fotografia d’architettura, sia l’architettura contemporanea stessa, tanto che l’architetto Zaha Hadid è arrivata a dichiarare che le fotografie scattate da Hélène alle sue opere hanno influenzato il suo approccio ai progetti successivi.
Nata in Svizzera da genitori svizzeri e francesi, ha studiato fotografia a Roma e per due anni ha fotografato gli spettacoli del Grand Théâtre de Genève prima di dedicarsi alla fotografia d’architettura. Il suo lavoro si rifà a questi anni di formazione: scatta solo su pellicola e le sue immagini sono una risposta al potenziale dinamico ed espressivo dell’architettura.
Più che documentare un edificio, la fotografia della Binet si configura come un’esplorazione intima e artistica dell’architettura che si interroga su come gli spazi che costruiamo esprimano il modo in cui percepiamo il nostro ambiente e noi stessi. Oltre a fotografare opere architettoniche del passato e dei grandi architetti del Modernismo, come Le Corbusier e Alvar Aalto, ha lavorato con i contemporanei David Chipperfield, Peter Zumthor e Daniel Libeskind. Proprio quest’ultimo descrive il suo lavoro come la rappresentazione “dei risultati, della forza, del pathos e della fragilità dell’architettura”.
Abbiamo avuto il piacere di lavorare con Hélène in occasione di uno shooting fotografico per la nostra collezione di tavoli “Love me, Love me not” disegnati da Michael Anastassiades. Ci siamo immediatamente resi conto dell’abilità straordinaria e dell’attenzione al dettaglio che mette nel suo lavoro.
La location dello shooting è stata una cava sulle Alpi Apuane vicino alla costa Toscana settentrionale a pochi chilometri dalla nostra sede; siamo rimasti affascinati da come Hélène abbia trascorso il primo giorno studiando meticolosamente la luce e le sue variazioni con il trascorrere delle ore, esplorando ogni punto della cava per cercare l’angolazione perfetta per gli scatti. Non è stata utilizzata nessuna luce artificiale, per questo il primo giorno è stato cruciale nella pianificazione dello shooting effettivo, che è avvenuto il giorno successivo.
Hélène ricorda così quell’esperienza: “Lo shooting è il risultato del rapporto speciale che ho con Michael Anastassiades e Salvatori. Michael ha progettato questi bellissimi tavoli insieme a Salvatori e abbiamo deciso di fotografarli in questa incredibile cava di marmo. L’esperienza di scattare in questa location è stata assolutamente unica. In una sola immagine è stato possibile creare un legame tra il luogo dove il materiale è stato estratto e la bellezza dell’oggetto creato a partire da quella materia. Dal momento che lo shooting è avvenuto principalmente in una cava ovviamente la luce diretta era poca, tuttavia essendo circondati da questa pietra bianca riflettente abbiamo potuto giocare grazie a questa caratteristica. Dal momento che è stato necessario un po’ di tempo per posizionare i tavoli, ho cercato di prevedere la direzione della luce prima dell’allestimento. Di solito ho il tempo di farlo lavorando in ambito architettura, ma in questo caso ho dovuto considerare sia lo spazio che l’oggetto: ci sono volute una pianificazione meticolosa e un po’ di improvvisazione.”
In questa intervista ci racconta come è arrivata alla fotografia d’architettura, del suo modo di lavorare e della sua passione per la pietra naturale.
Il suo interesse per l’architettura è nato prima di quello per la fotografia?
Non a livello conscio, nel senso che sono cresciuta a Roma ed è facile pensare che l’architettura abbia influito sulla mia formazione. Ho studiato fotografia pensando di lavorare nel campo dello spettacolo perché ho fatto da assistente a un fotografo che riprendeva musicisti e spettacoli teatrali e perché provengo da una famiglia di musicisti. Non ho mai considerato l’architettura come un soggetto per una fotografia, ma il caso ha voluto che, quando incontrai mio marito Raoul Bunschoten – che insegnava all’Architectural Association a Londra – sia venuta in contatto con architetti del calibro di John Hejduk e Daniel Libeskind che mi hanno permesso di avere una visione nuova di questa disciplina.
Negli ultimi anni ‘80, l’architettura non si interessava tanto alla costruzione di edifici iconici ma soprattutto alla ricerca di cosa significhi creare uno spazio, capire chi siamo attraverso ciò che costruiamo. Il rettore dell’Architectural Association amava la fotografia e realizzare libri fotografici e, nonostante non avessi mai fotografato un edificio prima di allora, mi chiese di collaborare con lui. Quel momento si è rivelato un’eccellente introduzione alla fotografia d’architettura.
Da quel momento, come si è sviluppato il suo approccio?
Sono sempre stata interessata a cercare di comprendere il concetto di una costruzione, la sua anima. Molti degli edifici che ho fotografato in quel primo periodo erano molto concettuali, più poetici che funzionali, e ciò rendeva necessario guardarli cambiando prospettiva. Nonostante non disponessi di solide basi tecniche in materia, penso che fra i lavori di quegli anni vi siano alcuni dei miei scatti più belli. Non so come ho scattato quelle foto, ho fatto come si fa da giovani, quando fai le cose come pensi sia giusto farle. È stato più tardi, quando ho iniziato a razionalizzare il mio approccio, che ho capito cosa volessi fare.
Naturalmente ci sono stati fotografi importanti per la mia formazione, in particolare Lucien Hervé e il suo lavoro sul convento di La Tourette di Le Corbusier. L’editore Jean Petit, che ha lavorato molto con Le Corbusier, era un amico di famiglia e lo ascoltavo mentre parlava dei suoi libri e della collaborazione con Le Corbusier già da ragazzina. Sono sicura che Hervé abbia influito molto sul modo in cui guardo l’architettura, soprattutto per l’importanza dell’ombra e dell’astrazione. Per il resto, il mio background fotografico si limitava alla fotografia pubblicitaria, fotografavo auto o bottiglie a Milano. La mia vera formazione è avvenuta a Londra negli ultimi anni ‘80, quando ho incontrato gli architetti dell’Architectural Association. Imparavo lavorando.
Riesce a spiegarmi il suo approccio a un edificio?
Per prima cosa cerco di raccogliere informazioni di base, ad esempio quando e come è stato costruito, ma non procedo sempre secondo uno schema fisso. Sviluppo l’approccio in corso d’opera, ho capito che è necessario guardare l’edificio diverse volte perché spesso, arrivati in studio, si nota qualcosa d’importante in un angolo di un fotogramma che ti spinge a continuare in quella direzione. Si tratta di un vero e proprio dialogo tra me e l’edificio.
Immagino che per molti aspetti l’architettura sia un ottimo soggetto perché non si muove, ma che ciò possa anche essere limitante.
L’architettura non si muove nel senso che non possiamo spostarla ma, come ha detto una volta John Hejduk, è l’unica forma di arte che ti “digerisce”: ci entri e ne esci cambiato dall’esperienza che hai vissuto nello spazio. E poi il modo in cui la luce interagisce con un edificio è stupefacente. L’edificio non si muove ma la luce cambia molto rapidamente e muovendoti al suo interno vedi continuamente qualcosa di diverso. Quando lavoro con un edificio ho la sensazione di essere di fronte a uno spettacolo continuo.
Cosa significa la pietra naturale per lei?
È molto importante per me. La pietra ti porta potentemente indietro nel tempo, non puoi pensare alla pietra senza pensare a come sia stata fatta e a come abbia dato origine a così tante tradizioni architettoniche, è un elemento fondamentale quando si pensa all’architettura. A casa ho una collezione di pietre raccolte nei luoghi dove sono stata, non posso pensare che si fotografi il mondo senza fotografare la pietra. La pietra reagisce alla luce con molta complessità.
Ha fotografato il lavoro di molti architetti celebri, contemporanei o moderni ma anche opere architettoniche del passato. Ci sono architetti o edifici che desidererebbe particolarmente fotografare?
Nel mio lavoro fotografico attuale sto cercando spazio e silenzio, quindi ci sono molti edifici storici che sarebbe importante fotografare, sono tanti i luoghi che vorrei visitare con la mia macchina fotografica. Vorrei fotografare il lavoro di Kazuyo Sejima anche solo per conoscere meglio le sue opere. Lei lavora con la luce e la trasparenza, con la sovrapposizione di materiali, che è l’opposto di ciò che ho fotografato fino a oggi. Generalmente lavoro con architetture più pesanti, con edifici massicci realizzati in pietra e in cemento, come il lavoro di Tadao Andō, ma penso sia importante uscire dalla propria comfort-zone per reinventarsi.